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Archive for febbraio 2012

Da Carolyne DelBurgo

Seguita la presentazione di Carolyne DelBurgo del suo libro su “La cacciata degli ebrei dall’Egitto” che racconta quando, nel 1956 tutti gli ebrei vennero allontanati dall’Egitto, e come la famiglia di Carolyne abbia trovato un approdo, dopo un estenuante viaggio a Brindisi, nel sanatorio che fu adibito a centro di raccolta per i fuggiaschi e la meravigliosa accoglienza della popolazione.

Ti trasmetto tutto il calendario che ho fino ad oggi.

29 FEBBRAIO: Bologna
Istituto Storico Parri.
Via S. Isaia 18 – ore 18,00

6 MARZO: Milano
ADEI (Associazione Donne Ebree Italiane) di Milano
Via delle Tuberose 14 – ore 17,00

13 MARZO : Firenze
ADEI (Associazione Donne Ebree Italiane) di Firenze
Via Farini 2A, – ore 16,30

17 MARZO : Parigi
ASPCJE (Association Sauvetage Patrimoine Culturel Juifs d’Egypte) – ore16,00

21 MARZO : Napoli
Comunità Ebraica di Napoli
Via Cappella Vecchia – ore 17,30

22 MARZO: Napoli
Istituto Magistrale Margherita di Savoia
Salita Pontecorvo 7 – ore 10,00

3 MAGGIO: Bologna
ADEI (Associazione Donne Ebree Italiane) di Bologna
Ti informo che l’Associazione francese che mi ospiterà a Parigi, metterà in rete copertina e la quarta di copertina del mio libro tradotto in francese.

Grazie Carolina

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Anche quest’anno, il Dipartimento di Arti Visive, in Piazzetta Morandi, ha esposto le locandine delle conferenze, prima che svaniscano ecco gli appuntamenti  da sotto le puntine da disegno…

Conferenze sull'arte a Santa Cristina

Parallelamente, sempre, in Aula Magna a Santa Cristina, avranno luogo gli incontri “Il Museo allo Specchio” , anche questi incontri sono organizzati per gli studenti che vogliono lavorare nei Musei, tuttavia la partecipazione è libera.

 

 

Museo allo Specchio

 

 

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Ho conservato nel mio archivio personale PM  (Panorama mese) del 1983 con uno degli ultimi articoli della critica d’arte Francesca Alinovi di cui seguivo  le lezioni . Ho parlato con alcuni giovani studiosi di arte che mi hanno chiesto espressamente di pubblicare questo articolo, trovato per caso, che faccio con piacere.

Roberta Ricci

BLACK GRAFFITI

Gli americani hanno deciso che con le bombolette spray si possono fare anche dei capolavori: su tela , senza sporcare muri e metrò . Protagonisti ndella nuova moda ,ancora i neri , che vi vedono un altro mezzo di disperata sopravvivenza culturale.

di Francesca Alinovi

Neri come la pece, o caffè latte, ma sempre scuri, felini carichi di sex-appeal, i neri di New York , dopo aver conquistato il mondo della musica e della danza , stanno diventando le nuove stars dell’industria artistica. Prima i graffiti sui treni, poi i graffiti sulle strade : ora i loro graffiti su tela riverniciano a nuovo i muri delle gallerie d’arte e le copertine delle riviste più eleganti di New York. Così riescono a imprimere anche un nuovo stile ai classici rituali del microcosmo artistico: musica rap, danzatori di strada breakers electric boogie dancers si accompagnano spontaneamente ai maghi delle bombolette spray e creano la cornice fascinosa, neotribale e neoprimitiva dell’universo super civilizzato del businnes in doppio petto . Parties e improvvisazione di shows, parlati, danzati, sempre musicali, sostituiscono le monotone e compassate inaugurazioni tipiche delle gallerie d’arte.

Gran parte degli americani, oggi, si sta ricredendo: i graffiti vanno bene, purchè si limitino alle tele e non invadano le aree urbane. Dopo avere denigrato per anni questo fenomeno selvaggio di vandalismo metropolitano, che oggi è diventato, a dispetto di tutti , nuovo motivo di orgoglio all’interno delle mitologia americana, non è restato loro che piegarsi alla logica del mercato. Questi obbrobri che costano ogni anno fiori di quattrini allo stato di New York per rimediare con tonnellate di vernice bianca alla lordura di tanti muri e di tanti mezzi di trasporto e che hanno fatto inorridire la gente costretta a viaggiare su treni già sporchi, in più illuriditi da segni oltraggiosi, che hanno finito per rilanciare New York nel prestigio dei media e della cultura, restituendole il titolo di capitale artistica del mondo occidentale.

Dopo essere scivolati per anni nell’anonimato dei  tunnel sotterranei, i graffiti degli artisti neri scorrono oggi sui fiumi di dollari del grande mercato d’arte internazionale. I graffitisti, perseguitati per anni dai poliziotti, dai cani e dagli arresti, stanchi di scendere con le loro bombolette sotto terra, lavorano alla luce del sole per i più prestigiosi galleristi, collezionisti e direttori di musei.

L’ascesa dei neri era cominciata circa dieci anni fa quando anonimi emarginati di colore decisero di emergere dal magma della negritudine e dell’anonimato sfregiando con le loro firme , tags come vengono dette in gergo, le pareti dei treni e i muri dei quartieri periferici di New York, di Brooklin e  del South Bronx. Allora, come oggi, si trattava semplicemente di affermare, attraverso la propria firma e il proprio marchio, una disperata voglia di comunicare all’interno della società più comunicativa del mondo che da sempre ha escluso dai propri canali di informazione e comunicazione intere comunità nazionali , pur numerose e piene di voglia di esprimersi.

I neri, per la maggior parte analfabeti ma spontaneamente acculturati sul mitico linguaggio delle immagini e delle notizie teletrasmesse per impulsi elettronici, volevano semplicemente provare l’ebbrezza della fama edella gloria promessa dalla mitologia dei mass media. Così, non potendo far scorrere i loro messaggi lungo i tubi catodici, decisero di farli scorrere sui treni. E poi, non potendo occupare la prima pagina dei giornali, si accontentavano di appropriarsi almeno dei muri. Loro aspiravano alla bella vita consacrata dalla celebrità, invece diventarono celebri perché furono scambiati con i criminali della malavita.

Eppure i neri volevano giocare, giocare con i media e con la società. Il graffitismo era un fenomeno di sfida e di competizione sfibrante combattuta per la conquista di un titolo di prestigio e di onore all’interno della propria comunità. I neri combattevano, attraverso le armi sempre più affilate e sofisticate del linguaggio, dello stile e del valore personale, una gara di emancipazione destinata alla fine a proclamare una graduatoria rigorosissima di vincitori e vinti, capi e sudditi, titoli di merito e marchi di infamia, eroi e vigliacchi. Il rituale si svolgeva secondo codici d’onore impeccabili stipulati all’interno del gruppo. Ed è sul gruppo che i neri si volevano imporre, per la forza, l’abilità, il coraggio e la celebrità. Ghetti urbani e tunnel sporchi, maleodoranti e pericolosi della metropolitana, diventano il terreno aperto di sfida, il campo di una lotta e di un gioco in cui, come i videogames, gli sfidanti entrano in gara con il corpo e col cervello. Il gioco diventava di volta in volta sempre più complesso e difficile, e per esso si inventarono nuove regole.

Il mantenimento del titolo di campione, da parte degli eroi dei graffiti, comporta una fatica e un esercizio estenuanti. Oggi la megalomania non basta più. Dopo aver brillato per la quantità delle firme o per le dimensioni dei graffiti, oggi bisogna stupire, per stravincere, con l’eccellenza, la perfezione e la straordinarietà dello stile.

Per questo i graffitari si spiano a vicenda, per potersi superare in bravura, e per questo oggi l’obiettivo massimo da raggiungere per loro, come garanzia di riconoscimento e di prestigio, è  diventato l’ingresso ufficiale nelle gallerie d’arte e nei musei.

Fino a qualche anno fa , per il successo garantito bastava che la televisione o un quotidiano immortalasse per puro caso l’immagine di un graffito magari perché situato sul luogo di un delitto o di un disastro.E il suo autore balzava immediatamente in testa alle classifiche. Ancor meglio era se una di queste opere appariva come scenario nelle riprese di un film di successo, come è capitato con La febbre del sabato sera e con L’esorcista. Oggi si pretende invece l’articolo su Artforum  e la mostra al Museum of Modern Art .

Gli articoli su  Artforum cominciano a piovere a scenderenmanciate e non è certo lontano il giorno in cui i graffitisti entreranno con tutti gli onori nei massimi musei al fianco di Pollck e della Pop Art, di cui del resto vengono considerati gli eredi. Alcuni di loro sono già diventati i re delle gallerie più in voga di New York, come Fashion Moda , Tony Shafrazi e la Fun Gallery, che hanno saputo con lungimiranza e fiuto mettere le mani in tempo su questi enfant prodige della bomboletta (sono tutti giovanissimi, tra i sedici e i venticinque anni). Loro del resto, grazie all’estro infallibile e alla sapienza giocata per anni sul filo della propria reputazione e della propria pelle , hanno cominciato già a far impallidire la fama di molti artisti bianchi di successo, i big di solo qualche anno fa, come Julian Schnabel, Robert Longo e David Salle, pur sostenuti da mercanti potenti come Leo Castelli.

I neri sono spietati nel bollare con il marchio di bad style, cattivo stile, le opere ritenute insufficienti o fallimentari, sia che appartengano ai membri delle comunità di colore, sia che escano dalle più rinomate scuderie dei bianchi. Gli artisti bianchi, per guadagnarsi il rispetto e l’ammirazione dei graffitisti neri, devono eccellere in qualcosa e, per venire considerati alla pari, devono scendere in campo anche loro con le bombolette e cimentarsi nella gara di velocità, perfezione tecnica e  abilità. Per questo gli unici artisti bianchi considerati degni di stima sono quelli che negli anni scorsi hanno avuto il coraggio di dividere con i i neri l’ebbrezza dei tunnel, delle fughe, degli arresti e dell’avventura.

I più noti tra questi sono Keith Haring e Kenny Scha rf, i soli veramente degni di essere affiancati ai neri per essersi saputi tuffare assieme a loro nell’emarginazione sociale e nel periferico esistenziale. Altri artisti bianchi che hanno saputo procurarsi una considerevole forma di rispetto :John Ahearn, trasferitosi addirittura nel South Bronx “per vivere quotidianamente il rischio fisico, reale, che chiunque possa ammazzarti senza ragione”, e autore di splendidi calchi in gesso a grandezza naturale di gente di colore: Houston Ladda, protagonista di imprese epiche di pittura murale sempre nel South Bronx; e Judy Rifka, che applica segni corrosivi sulla tela, colori che sembrano smangiati da una consumazione di lettura troppo avida e veloce.

Ma chi sono i fuoriclasse di questa crudele selezione nera,che tanto assomiglia , oltre che a un gioco combattuto ai ferri corti con l’arte, a una disperata lotta per la sopravvivenza nella cultura?. Jean Michel Basquiat è stato il primo artista di colore a uscire dal ghetto dell’anonimato e a imporsi come artista di fama e di successo nelle gallerie. Jean Michel, noto ai tempi duri come Samo, deve in parte la sua fortuna a una gallerista mecenate , Annina Nosei, che lo ha ospitato nella cantina della sua galleria in Prince Street a Soho e gli ha offerto uno spazio chiuso in cui lavorare e uno spazio aperto al pubblico in cui esporre. Jean Michel lavora oggi anche per altre gallerie, come la Fun gallery e quella di Tony Shafrazi, ma continua ad affiggere i propri stemmi, una corona sottoscritta dalla parola Tar, sulle palizzate e sui muri del Lower East Side. Tar è una parola che significa catrame, e il simbolo scelto da Jean Michel che vuole celebrare con enfasi e senza tanti complimenti il trionfo sfacciato del nero, del nero come la pece e come la sua stessa pelle. La sua firma segna il tripudio del nuovo orgoglio razziale.

Futura 2000 è un altro dei nuovi nomi consacrati dalla gloria ufficiale. Futura, tra i compagni, forse è quello meglio inserito all’interno dei circuiti internazionali dell’arte. La sua bibliografia è ormai ricchissima di recensioni e di mostre sparse in ogni parte del mondo: Amsterdam (dove sono nate ben due gallerie specializzate in graffiti, american Graffiti e la Yaki Kornblit, Londra, Parigi, Tokio. Futura ha lavorato anche con un famoso gruppo rock, The Clash, collaborando alla realizzazione dell’ultimo album, Combat Rock, ed è in giro in tournèe a curare le scenografie delle bande di  rappers, breakers ed electric boogie dancers, ultimi protagonisti della danza e musica nera.

A New York, Futura vive a Brooklin all’interno di una ex-fabbrica di piscine , sotto un tetto che copre centinaia di metri quadri di superficie invasa da detriti tecnologici  e da cascami industriali, entro tunnel che si snodano come i labirinti della Subway e le tortuosità dei vecchi castelli gotici. Futura ha inventato una specie di arte fantascientifica postnucleare che trasmette lampi di energia magnetica alla  eccezionalità di forme strappate dal quotidiano.

Rammellzee è l’ultima rivelazione in ordine di tempo, uscita dalle lotte senza quartiere combattute , oltre che con le armi del colore, anche quelle dell’intelligenza. Rammellzee è il primo teorico del graffitismo, il primo filosofo scienziato della nuova forma di scrittura visiva metropolitana. Rammellzee ha scritto un pamphlet agguerritissimo in cui rivendica a sé e ai membri della sua banda, da lui definita del Panzerismo Iconoclasta o del Futurismo Gotico, la disciplina ferrea dello stile, liquidato invece con disprezzo dall’opinione comune come wild style, stile selvaggio.

“Mentre scrivevamo sui treni ci accorgemmo che, col tempo, il il nostro stile si era fatto sempre più disciplinato-disciplinante. Così decidemmo di disciplinare l’intera faccenda. Ripensandoci, infatti, ci rendemmo conto che l’etichetta di “graffiti” che la gente ci aveva appiccicato addosso, e che significa press’a poco scribble-scrabbling, sgorbio-scarabocchio, non l’avevamo scelta noi e non ci stava bene affatto. Allora ci chiedemmo: scrivere, okay,ma scrivere cosa? Che cosa stiamo scrivendo? Così ci siamo accorti che stavamo scrivendo il Panzerismo Iconoclasta. Il nostro scrivere è come la pratica di un armamento militare, un creare simboli di distruzione e di morte. La distruzione dell’alfabeto. La morte del dizionario. E il risultato di quello che noi stavamo facendo veniva dal ricordo ancora conservavamo dei tunnel, del buio, dei topi, dei poliziotti, del binario della morte e della merda”.

La banda di Rammellzee, sottoposta a una rigida organizzazione gerarchica, è composta da altri trè giovanissimi artisti neri. A One, Koor, e Toxic, assegnati alla difesa e all’armamento militare delle lettere A,B,C. Le lettere, nella visionarietà fantapocalittica di questi graffitisti, si corazzano di immagini, si armano di simboli militari e si mimetizzano, come le superfici dei carri armati e delle divise dei soldati, nascondendosi sotto la indecifrabilità del senso. Il nuovo linguaggio si insinua, subdolo e furtivo, tra le linee della comunicazione ufficiale scardinandola alle radici, cogliendola di sorpresa come un attacco nemico. Molti americani, anche intellettuali, confessano candidamente di non capire la complessa simbologia di Rammellzee, ma ne restano affascinati. Le opere di  Rammellzee e dei tre della sua banda assumono però, oltre alle forme minacciose dei carri armati, dei missili nucleari e delle frecce medievali, anche le  immagini più rassicuranti dei decori, degli arabeschi e dei fumetti. Tutte le armi, e gli espedienti, sono utili per riportare la scrittura alla sua natura più fantasiosa e originaria, come ai tempi degli scribi e degli amanuensi. La guerra è giocata tutta sul piano della metafora e dell’azzardo, e mira a far vincere ai suoi eroi nuovi traguardi di prestigio e primati di superiorità. Anche se finisce vagamente per assumere i toni di una guerra vera la scrittura, si sa, rappresenta da sempre un’arma di potere nelle armi di chi la possiede. “ Sì, si tratta di una vera guerra”, sostiene tranquillamente A One , “è la guerra delle lettere armate contro le altre lettere. Anche se non è una guerra come quella tra bande rivali, o come quella tra la gente nelle strade. E’ vero però, che in passato la gente ha combattuto davvero la guerra, a causa delle lettere, nelle strade. E può darsi che in futuro la gente ritorni ancora a combattere, sempre a causa delle lettere, la guerra nelle strade”.

Francesca Alinovi

Allieva di Renato Barilli,professore di estetica al Dams di Bologna, isituto di Disciplina delle arti, della musica e dello spettacolo; insegnante lei stessa di fenomenologia degli stili, Francesca Alinovi ha consegnato a PM questo articolo pochi giorni prima di essere assassinata da ignoti, a metà giugno, senza apparenti motivi.

A sinistra The Jungle di Kenny Scharf a destra un’opera di A.OneRammellzeeRammellzee e a sinistra Jean Michel BasquiatJohn AhearnKeith HaringPanorama mese del 1983 da cui è stato tratto l’articoloFrancesca Alinovi

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